G.M.

Lei mi chiede di descrivere la faccia dei miei ricordi. Le domando a mia volta se devo essere precisa. Non si sforzi, mi risponde. Quello che le viene in mente, non è importante che sia coerente. Cerco di non chiudere gli occhi, di proiettarla sul soffitto bianco sporco di quella stanza asettica arredata con pochi mobili dal gusto scandinavo, spigolosi, lisci, funzionali. Freddi.

Aveva un dente più sporgente degli altri. Un sorriso caldo che non starebbe bene in questa circostanza.

Lei dice di andare avanti.

Capelli castani scuro, con ampi ricci. A volte erano stati lasciati crescere a lungo. Pelle color latte di mandorla, il suo preferito lo facevano al bar Lux. Sapevo che era quello perché me ne aveva parlato molte volte. I miei ricordi hanno il perimetro del suo volto, sono chiusi nella geometria di occhi-naso-mento.

Ma poi, se ancora ci penso, fuori da quell’area precisa non ricordo più niente.

Ci riprovi.

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